Psicoanalisi e psicoterapie: quale terapia scegliere?

Psicoanalisi e psicoterapie: perché una terapia funziona? Quale terapia scegliere?

Esistono differenti forme di psicoterapia (la psicoanalisi “classica”, quella che si considera la “cura tipo” secondo le disposizioni dell’International Psychoanalytic Association, le differenti psicoterapie più o meno psicoanalitiche, la cognitivo-comportamentale, la sistemico-relazionale, l’umanistica, l’integrativa, la psicocorporea, quella di coppia...) e ciascun orientamento, a sua volta, ha sviluppato ulteriori e specifici modelli teorici e tecniche di cura.

Quale scegliere? Quale tipo di trattamento è più indicato per la cura di determinati disturbi? In base a quali criteri è possibile valutarne i pro e i contro? Sono domande non solo legittime, ma indispensabili per informarsi e capire come affrontare problematiche di disagio e sofferenza in un campo così delicato come quello della salute mentale, tuttavia difficilmente si trovano delle risposte soddisfacenti. Per quale motivo?

Psicoterapia e psicoanalisi: la psicoanalisi è una forma di psicoterapia?

In realtà, ce ne sono così tanti e spesso tra loro così eterogenei che, paradossalmente, possono alimentare maggiormente la confusione, rendendo ancora più arduo il tentativo di chiedere un aiuto. In sostanza, che cosa fa sì che una terapia funzioni oppure no? È una questione complessa, per molti aspetti a tutt’oggi ancora controversa in particolare all’interno del dibattito psicoanalitico contemporaneo.

A questo proposito lo scorso dicembre il Centro Clinico ha organizzato una giornata di studio e di confronto dal titolo “Psicoanalisi e Psicoterapia si ascoltano e dialogano”, alla quale il dr. Simone Maschietto ha invitato due illustri psicoanalisti: René Roussillon e Anna Ferruta. Riprendendo alcuni temi di cui si è discusso in quell’occasione, proverei a inquadrare il problema affrontando due questioni che ritengo di particolare interesse: la prima relativa al problema del “bisogno di sicurezza”, che ha presentato Roussillon, e la seconda, di cui si è occupata la Ferruta, riguardante il fatto che la terapia analitica si caratterizzi come una vera e propria “esperienza” con una sua specifica dinamica trasformativa, alla quale partecipano, a tutto tondo, sia l’analista che il paziente.

Il primo punto ci offre l’opportunità di prendere in esame l’annoso e interminabile dibattito fra cos’è psicoanalisi e cos’è psicoterapia psicoanalitica, che differenza c’è tra psicoterapie più o meno distanti dalla psicoanalisi classica e via dicendo. Ebbene, entriamo subito nel merito di quest’ultimo: Roussillon ci dice che se per definire una pratica ci rifacciamo all’obiettivo che si vuole conseguire, allora non esiste alcuna differenza sostanziale tra la psicoanalisi e la psicoterapia in senso lato, in quanto tutte hanno lo stesso scopo: la cura.

La psicoanalisi è, dunque, una forma di psicoterapia benché molti non siano d’accordo. Costoro ritengono che il procedimento analitico, con la sua “benevola neutralità”, sia esente da ogni preconcetto se non quello di investigare il funzionamento dei processi psichici, pertanto lo scopo sarebbe soltanto quello conoscitivo. Si rifanno al noto riferimento di Freud a Leonardo, che distingueva le arti figurative a seconda che operassero “per via del porre” o “per via del levare”. La psicoterapia funzionerebbe un po’ come la pittura che con consigli e suggestioni andrebbe a porre, con il suo furor curandi, sulla tela colori che vanno a modificare l’immagine del paziente, mentre l’analisi, come la scultura, toglierebbe ciò che impedisce alla statua, che dorme nel blocco di marmo, di venir fuori e di esprimersi. Ma questo è stato anche un limite del procedimento analitico contro cui lo stesso Freud si è imbattuto (si veda ad esempio il caso di “Dora” oppure quello dell’ “Uomo dei lupi”).

Da geniale pioniere nell’investigazione del funzionamento inconscio, egli aveva tutto il diritto di procedere su questa strada dato lo scopo che si era prefissato, ma ciò non ha impedito alla realtà clinica di mostrare altre situazioni, differenti e lontane dal modello nevrotico freudiano, da qui i risultati terapeutici poco probanti, con scarsità di successi duraturi e di profondi cambiamenti, come lo stesso Freud, per primo, non esitò a riconoscere con estrema lucidità e vivo interesse clinico. Così, fin dai suoi inizi, la psicoanalisi si è costantemente confrontata con la clinica, la cui reale complessità non è riducibile a interessi scientifici per quanto nobili, importanti e decisivi possano essere stati nella comprensione dei funzionamenti psichici.

Psicoterapie cognitivo-comportamentali e psicoanalitiche: un confronto

Questo punto evidenzia una differenza importante rispetto ad altre forme di psicoterapia, come quelle di tipo cognitivo-comportamentale, che fondano il loro modello operativo sulla ricerca scientifica. Nelle ricerche l’efficacia del trattamento, sia esso farmacologico o psicoterapico, è focalizzato sul sintomo, cioè sulla disfunzione qualitativa o quantitativa presentata dai pazienti, sia essa un comportamento o un processo mentale. Il disegno sperimentale viene ideato con lo scopo di scoprire a quale tipo d’intervento psicoterapeutico o a quale principio attivo corrisponda la migliore risposta rispetto a un determinato sintomo, ad esempio, di tipo ossessivo o ansioso oppure depressivo.

Tutto ciò ha una sua coerenza e validità scientifica incontestabile sennonché si tratta di un modello lontano dall’esperienza clinica, dove è raro incontrare un quadro clinico monosintomatico. Ad esempio, la sintomatologia depressiva spesso si accompagna a manifestazioni d’ansia di notevole livello disfunzionale, oppure è complicata da meccanismi di tipo ossessivo o, a volte, da vissuti di tipo paranoide, cosa del tutto incongruente se ci soffermiamo solo sulle manifestazioni sintomatiche. Inoltre un singolo sintomo si può incontrare in ogni situazione, normale o patologica che sia, senza determinare la struttura personologica di base.

Quando poi le correlazioni, trovate dalla ricerca scientifica, si trasferiscono alla clinica, si rischia un ulteriore procedimento riduzionistico tra le categorie psichiatriche (fobie, ossessioni, anoressia ecc.) e la persona concreta, con il risultato di trovare nella letteratura un’abbondanza di lavori sulla comorbilità (l’occorrenza di più quadri sintomatici nello stesso paziente), trattata semplicemente come un insieme di sintomi sui quali si focalizzano singoli e distinti interventi terapeutici, senza interrogarsi sulla struttura di personalità che nel suo insieme dà senso e organizza l’esperienza che ogni individuo fa di sé e degli altri.

L’organizzazione della personalità, quando il tutto è funzionale e ha un suo equilibrio, fa, per così dire, da sfondo ai differenti tratti del carattere che fanno di ciascuna persona quello specifico individuo, differente da qualunque altro, il cui funzionamento può essere più o meno flessibile e adattivo alle diverse situazioni. Mentre, nei momenti di crisi, tale organizzazione si manifesta attraverso sintomi psicopatologici. Tenerne conto, infatti, porterebbe a interrogarsi su cosa vi sia in comune e, soprattutto, su cosa si differenziano, nello specifico, pazienti che presentano lo stesso quadro sintomatico.

Un quadro anoressico, ad esempio, attraverso cui trova espressione una personalità dominata da ideali di perfezione e votata al sacrificio di sé è ben altra cosa dal caso in cui sia il modo in cui un’altra personalità cerca di controllare e di tenere a distanza i propri genitori obbligandoli a stare in ansia per l’alimentazione, oppure l’espressione di un’altra che nega, con il calo ponderale, l’identificazione sessuata del suo corpo perché angosciata dalla sessualità. I casi non mancano, potremmo proseguire indicando ulteriori e differenti dinamiche psicopatologiche all’interno della stessa categoria.

L’ascolto clinico

Ciò che è importante evidenziare è che nella concretezza dell’esperienza clinica abbiamo a che fare con la comprensione e, allo stesso tempo, con l’entrare in relazione con particolari dinamiche di personalità, che non possono essere dedotte in base a una lista di segni e sintomi, per, poi, praticare delle terapie, con procedure astratte e valide per tutti i pazienti. Piuttosto, si tratta di capire qualcosa di ciò che avviene durante il trattamento dove s’incontrano il tale terapeuta e il tale paziente. Tra le due personalità, ognuna con particolari e individuali caratteristiche di funzionamento, si mette in campo un processo relazionale che porterà, se tutto va bene, a una modificazione della psicopatologia del paziente oppure, nella peggiore delle ipotesi, a un suo aggravamento.

“A chi sta parlando?”, “Chi sono io per lui in questo momento?” si chiede l’analista attraverso un duplice ascolto: ascoltando il paziente e ascoltando se stesso. Così come il paziente in analisi, attraverso la parola e la comunicazione non verbale, ha un duplice referente: da una parte l’analisi, l’analista e tutte quelle figure del suo mondo interiore che si rimettono in gioco nella relazione con il terapeuta, e dall’altra se stesso, un sé molteplice formato dai tanti sé che attraversano la sua esistenza (un sé infantile, adolescenziale, adulto, professionale, figlio, padre ecc.). Si tratta di questioni sulle quali il pensiero e la prassi psicoanalitica si sono a lungo interrogate trovando le proprie radici nella “clinica”, proprio nel senso etimologico del termine che letteralmente significa stare “presso il letto del malato”, cioè stare vicino al paziente, saperlo ascoltare cercando di mettersi sulla stessa frequenza d’onda. Ma se ciò non accade, se, per dir così, non si gioca lo stesso gioco allora la terapia non funziona, come se il terapeuta giocasse a pallacanestro e il paziente a pallanuoto. Possono incontrarsi? Facciamo un esempio.

Alberto è un giovane adulto con un forte senso di responsabilità che chiede un’analisi perché è un brutto periodo, ha molti pensieri in testa e soffre d’angoscia polisintomatica, causa di un cronico affaticamento e difficoltà a dormire. Benché abbia un buon impiego lavorativo e degli ottimi riconoscimenti professionali, in realtà vive con estrema ansia le richieste di lavoro, si dà molto da fare ma non è mai soddisfatto di ciò che fa, pensando che gli altri siano più bravi di lui. Lo stesso capita con le ragazze che contatta sui social, così, dopo i primi incontri, Alberto lascia perdere perché non si decide mai a fare il primo passo, incalzato da ideazioni di svalutazione e sentimenti di indegnità. Mentre parla, mantiene lo sguardo davanti a sé non incrociando quello del terapeuta, racconta che vale poco, che è pigro, a volte dà agli altri la colpa, ma poi sta ancora peggio.

Sul piano sintomatico sembrerebbe un classico quadro di depressione nevrotica, ma questo non ci è di particolare aiuto, a mano a mano che procedono gli incontri viene a configurarsi un’altra situazione nella relazione con l’analista. Alberto non si svaluta perché è caduto in depressione, ma piuttosto perché sembra aver paura del terapeuta e, in un certo senso, così facendo si tiene a distanza evitandolo, cosa che poi sembrerebbe ripetersi con le altre persone significative, tutte più in gamba di lui. Ciò che gli fa paura è l’aggressività degli altri, ma inconsciamente sembrerebbe temere la propria aggressività. Infatti, non riesce mai a dire la sua, a fare il primo passo e si difende idealizzando gli altri, poiché vive in modo paranoide la risposta dell’altro e, allo stesso tempo, idealizzandolo fugge da possibili situazioni di confronto e pericolo. Lui, in fondo, è una persona di poco valore cosa potrebbe fare? Se segue gli altri, che sono tutti più bravi di lui, non ha nulla da temere.

In che modo è possibile affrontare una situazione di questo tipo? Quale strategia terapeutica è quella più indicata per smuovere una tale organizzazione di personalità e rimettere in gioco le risorse di Alberto? Per rispondere a queste domande è necessario introdurre il concetto di “sicurezza”, che per Roussillon è il background fondamentale perché possa svolgersi una terapia.

Il bisogno di sicurezza

Con questo concetto l’analista francese indica un “sentimento”, un “bisogno” di cui non è possibile fare a meno e, pertanto, se una terapia non è in grado di garantirne il soddisfacimento allora non può esserci terapia, di qualunque tipo si tratti. Da qui gli effetti più o meno iatrogeni di terapie le quali, benché abbiano seguito alla lettera le indicazioni dei loro modelli di riferimento e dunque tecnicamente non c’è stata nessuna mancanza o distorsione delle procedure, non hanno saputo vedere il paziente, incontrarlo e ascoltare i suoi bisogni fondamentali. E non è inutile sottolineare che magari si sono applicati modelli convalidati e sperimentati dalla ricerca scientifica come nel caso dei trattamenti cognitivo-comportamentali, tuttavia non ha funzionato perché la clinica richiede altre competenze, di certo non è sufficiente conoscere modelli teorici o tecniche terapeutiche per quanto importanti e attendibili possano essere.

Lo stesso Freud, nonostante l’indubbio interesse conoscitivo della scoperta dei processi psichici inconsci, si era più volte interrogato, nel corso della sua pratica terapeutica, sul funzionamento della personalità dell’analista in relazione a quello dei pazienti e alle procedure terapeutiche impiegate. Domandandosi, ad esempio, se il setting lettino-poltrona, da lui ideato, fosse un dispositivo adeguato soltanto alla sua personalità e non adatto per altre, che avrebbero potuto avvantaggiarsi di differenti tipologie di setting, più vicine alle loro potenzialità terapeutiche.

Allo stesso modo, ci sono pazienti che hanno potuto affrontare con successo un percorso analitico “classico”, quello con un setting ben definito e impostato, e altri che, diversamente, non hanno potuto farlo. Per alcuni il setting analitico, invece di essere ciò che sostiene e permette il processo d’analisi, diventa ben presto il contrario, cioè un luogo di tensioni e angosce non tollerabili. Ripresentandosi tali sofferenze si assiste alla produzione di precoci difese alla cura, con lo scopo di impedire lo sviluppo di fiducia e delle dinamiche della relazione terapeutica. Altri, diversamente, nonostante una richiesta autentica di aiuto, si sono trovati imprigionati nella cura analitica proprio perché incapaci di affrontare i propri impasse, cioè “adattandosi” alle regole dell’analisi e riuscendo, in qualche modo, a fare dell’analista un complice involontario.

Sono questioni sulle quali la cura analitica si è interrogata a lungo per comprendere quali fossero i limiti di analizzabilità, con lo scopo cioè di estendere il metodo analitico oltre le indicazioni per la cosiddetta “cura tipo”, quella più ortodossa e rigorosa (dispositivo lettino-poltrona, una determinata frequenza delle sedute, silenzio dell’analista, interpretazioni di transfert ecc.). In un certo senso, è come se questi pazienti, con le loro difese e resistenze alla realizzazione del lavoro analitico, si chiedessero se il setting terapeutico sia o non sia utilizzabile, sia o non sia “sufficientemente sicuro”, come dice Roussillon, per affrontare ciò che crea disagio e sofferenza.

Ritorniamo al caso di Alberto, cosa potrebbe fare l’analista? Si potrebbe aiutare il paziente a prendere coscienza di questa sua dinamica di personalità, in modo tale che si renda conto di come anche lui partecipi a questo gioco, evitando e spostando la propria aggressività sugli altri per non volerne sapere. Ma, visto che Alberto si mette in “sicurezza” adottando inconsciamente questo schema relazionale, è probabile che si verifichino due esiti terapeutici. Potremmo immaginare che il lavoro analitico su una maggiore consapevolezza finirebbe con il fare breccia nel suo modello difensivo, rompendo tutte le sue difese e facendolo sentire ancora più incapace e inerme, aumentando, in tal modo, il pericolo di un confronto insostenibile con un analista così bravo e sicuro di sé, oppure il paziente potrebbe replicare tale modello sottomettendosi ancora una volta al suo terapeuta, vissuto come un’altra figura da idealizzare, senza mai mettersi veramente in gioco.

Nel primo caso assisteremmo a una probabile interruzione della terapia, mentre nell’altro a una sottile collusione tra paziente e terapeuta, dovuta a delle dinamiche irrisolte della personalità del terapeuta che inconsciamente ha bisogno di essere un bravo analista, che tutto proceda a gonfie vele secondo i dettami di un setting rigoroso e formalmente irreprensibile. In pratica un terapeuta in difficoltà a riconoscere e tollerare, a sua volta, la propria aggressività. Tutto magari sembra andare bene, eppureanalista e terapeuta non potranno incontrarsi, ognuno difeso nel proprio bastione.

Che cosa dovrebbe fare allora l’analista? Ascoltare non solo il paziente ma anche quello che succede dentro di lui. Un ascolto clinico che è sempre duplice, attraverso il quale è possibile intercettare il bisogno di sicurezza di Alberto e il suo desiderio di incontrare qualcuno con cui finalmente potersi confrontare senza soccombere, un bisogno e un desiderio che non devono essere confusi dal terapeuta con il proprio desiderio di essere idealizzato attraverso un uso difensivo del setting. È per questo motivo che i training di formazione psicoanalitici sono così lunghi e tortuosi, occorre un terapeuta che, non avendo paura della propria aggressività, sia grado di riconoscere e tollerare quella del paziente, sia cioè capace di mostrarsi mancante, non in gamba, che sia, in sostanza, disposto a giocare il gioco di Alberto, per creare un setting adeguato e sintonizzato sui bisogni più importanti del paziente.

Altrimenti la stessa relazione terapeutica correrà il rischio di ripresentare le medesime zone traumatiche da cui il paziente si difende con i propri specifici modelli di funzionamento. Anzi, quanto più il terapeuta si cimenterà in questo, tanto più il paziente farà resistenza, mandando così all’aria ogni sforzo di cura, è il suo modo migliore di funzionare, altri non ne conosce.

L’“esperienza” psicoanalitica

Questo ci permette di comprendere che cosa intenda la Ferruta quando dice che la psicoanalisi è una forma di “esperienza”, un concetto in linea e continuità con quello di “sicurezza”. Come nel caso di Alberto, spesso in terapia non funziona un semplice ampliamento della coscienza, come se fosse possibile una progressiva presa di consapevolezza di ciò che non va e questa potesse essere la chiave per la guarigione. Non è certamente una questione di apprendimento cognitivo, se così fosse, allora non ci si spiegherebbe come mai i pazienti non l’abbiano già fatto, le occasioni di certo non saranno mancate.

Il problema, piuttosto, è di cosa e come fare, dato che entrambi, terapeuta e paziente, sono determinati, volenti o nolenti, dal loro inconscio. In sostanza, sembrerebbe essere altrettanto necessario tendere a una modificazione del funzionamento inconscio. Com’è possibile? Attraverso un dispositivo di cura che offra la possibilità di fare “esperienza” del proprio funzionamento inconscio nello sviluppo di realtà e funzionamenti psichici bloccati, cristallizzati, magari giudicati come indegni di sé oppure non ancora accessibili. E per fare “esperienza”, cioè per capirci qualcosa e comprendere che cosa occorra fare, serve qualcun altro: per fare una mente - come diceva Bion - ce ne vogliono due. Parafrasandolo, possiamo dire che una terapia funziona se è possibile, in una relazione fra due persone, fare esperienza di ciò di cui non si è mai potuto fare esperienza.

Un incontro capace di dare spazio e ascoltare ciò che il paziente inconsciamente chiede nella sua domanda di cura, ossia ciò che avrebbe dovuto avere e che non ha mai trovato. Un incontro il cui successo dipenderà in primis dal clima di fiducia e di apertura che sarà possibile instaurare. Si va in terapia non solamente perché qualcosa non funziona ma anche perché si cerca qualcosa. Tutto ciò fa parte di quel particolare e complesso fenomeno, scoperto da Freud, che si chiama “transfert”: c’è qualcosa che si rimette in moto, che si ripresenta, come gli stessi sintomi. Questi fenomeni non sono degli accadimenti senza senso, semplici incidenti che non hanno niente a che vedere con la nostra personalità, al contrario si tratta di ciò che Freud scoprì come “formazioni dell’inconscio” (sintomi, lapsus, sogni, transfert ecc.), che possono essere dei pericoli da evitare oppure delle preziose mappe di tesori sepolti nelle nostre profondità. C’è dunque un’insistenza, una ripetizione, di cui paradossalmente non si ha alcuna esperienza, ma che spesso è causa di sofferenza perché psichicamente non è stata metabolizzata.

A ben vedere, tutta la psicopatologia è ripetizione come ci ricorda Roussillon. Non ci sono sintomi se non c’è ripetizione e spesso si ripetono le esperienze più precoci, quelle che per debolezza della capacità di sintesi o per mancanza di sostegno da parte dell’ambiente non sono state assimilate e integrate, dando luogo a zone della psiche non sviluppate oppure segregate. Per molti pazienti, una terapia che tenda a far acquisire consapevolezza di queste zone il più delle volte sarà vissuta come intrusiva e causa di ulteriore sofferenza.

Ma è anche questo un modo di comunicare ciò che non funziona all’interno della relazione di cura, facendo emergere tensioni e angosce a cui il terapeuta deve essere particolarmente sensibile e attento. Riuscire a intercettare e sintonizzarsi sui bisogni più profondi e fondamentali dei pazienti spesso è la condizione necessaria perché una relazione terapeutica, ripresentando ciò che è di ostacolo alla relazione stessa, possa diventare tollerabile e utilizzabile sia per il paziente che per il terapeuta per affrontare ciò che genera sofferenze non accettabili.

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