Bullismo psicologico: come può aiutare la psicoterapia?

Con bullismo psicologico intendiamo una specifica tipologia di comportamento aggressivo, vessatorio e intimidatorio nei confronti di un’altra persona, protratto nel tempo e agito in maniera intenzionale. Rispetto al bullismo comunemente inteso, esercitato tramite azioni dirette con attacchi manifesti fisici e/o verbali, quello psicologico è agito mediante azioni meno evidenti e indirette ma le cui conseguenze possono essere ugualmente gravi. Le azioni offensive compiute dai bulli sono ritenute tali in quanto volte deliberatamente a far del male causando, in questo caso specifico, difficoltà emotiva nell’altro.

Il fenomeno del bullismo, compreso del bullismo psicologico, si può verificare a diverse età; negli ultimi anni si riscontrano casi già a partire dai 7 anni. In considerazione della maggiore incidenza riscontrata nelle scuole e centri di aggregazione giovanile, andremo qui ad approfondire la fascia d’età adolescenziale.

Storia del bullismo … le prime ricerche

Il fenomeno del bullismo ha cominciato ad attirare l’interesse dei primi studiosi verso la fine degli anni ’70. Lo psicologo svedese Dan Olweus è oggi riconosciuto come il pioniere della ricerca sul bullismo grazie ai suoi primi studi condotti in Norvegia, avviati a seguito di un grave episodio di cronaca locale.

A lui si deve la prima definizione: “uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più coetanei”. I suoi studi e scoperte portarono, circa dieci anni dopo, alla comparsa del termine sulle riviste scientifiche riscuotendo interesse anche nell’opinione pubblica e nell’establishment culturale estero.

Quali sono le forme di bullismo?

Lo psicologo D. Olweus distinse due tipologie principali di bullismo, alle quali i tempi moderni hanno purtroppo dovuto aggiungerne una terza (D. Olweus, 1996, Bullismo a scuola: ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono. Firenze, Giunti). Dunque, oggi sono riconosciute tre forme di bullismo:

  1. Bullismo diretto: caratterizzato da attacchi plateali nei confronti della vittima compiuti spesso davanti ad altre persone. Le prevaricazioni possono essere di tipo fisico (pugni, spintoni, obbligare a fare qualcosa, rovinare oggetti personali, eccetera) o verbale (deridere, insultare, eccetera). Avviene spesso tra i maschi;
  2. Bullismo psicologico (o indiretto): attuato tramite comportamenti indiretti e meno manifesti, volti all’isolamento ed emarginazione della vittima tramite l’allontanamento dai gruppi, l’esclusione dai momenti di incontro extrascolastici e attività pomeridiane, diffusione di pettegolezzi, offese o mal dicerie, eccetera. Tale forma di bullismo è più frequente tra le femmine;
  3. Cyberbullismo: fenomeno più recente che consiste nella diffusione, mediante il mondo virtuale (rete internet, i social media, cellulari, telefonate anonime), di messaggi violenti e/o volgari, video e foto offensivi o riservati, immagini modificate, eccetera.

Conflitto non è sinonimo di bullismo. Come riconoscerlo?

L’espansione delle ricerche dedicate ha definito meglio alcuni punti cardine che oggi ci permettono di distinguere un episodio di conflitto transitorio o comportamenti aggressivi estemporanei, dai veri e propri atti di bullismo.

Gli elementi qualificanti il bullismo diretto e il bullismo psicologico sono:

  • - l’intenzionalità: ovvero la volontà deliberata di arrecare offesa all’altro;
  • - sistematicità: le sopraffazioni devono perdurare nel tempo;
  • - asimmetria di potere: devono esservi differenze tra il bullo e la vittima che permettano una chiara distinzione tra il ruolo di forte-prevaricatore e di debole-vittima.

Dunque, è possibile distinguere una situazione di normale conflitto da quelle di bullismo se le persone coinvolte godono dello stesso status nel gruppo di coetanei, hanno una simile solidità emotiva, entrambe sono in grado di porsi un limite o accettare quello imposto dall’esterno, manifestano le proprie ragioni spiegando il motivo del disaccordo e soprattutto sono in grado di cambiare argomento per poi distogliere l’attenzione. In queste dinamiche non sussiste il desiderio di prevaricare l’altro né un’asimmetria di potere.

Considerando pertanto quanto sia complesso il fenomeno del bullismo, oltre a tenere presente i tre criteri cardine, occorre prestare attenzione alle dinamiche interpersonali. Per esempio nel caso del bullismo psicologico, la sua espressione è più sottile e risulta talvolta più difficile da riconoscere rispetto agli agiti del bullismo diretto: se un’insegnante entrando in classe vede due ragazzi che si picchiano, dedicherà immediatamente la sua attenzione a loro; diversamente, se durante la ricreazione vedrà un gruppetto di compagni che ridacchia e parla amichevolmente e un alunno in disparte che legge o scrive da solo, non tenderà a preoccuparsi della situazione in quanto dagli elementi di sola osservazione è difficile pensare che ci possa essere una situazione di esclusione. Risulta evidente quanto l’approfondimento delle dinamiche relazionali del gruppo sia un aspetto molto importante per riconoscere e contrastare gli episodi di bullismo psicologico.

Perché fai il bullo con me?

Il bullo non si improvvisa tale ma è intenzionato e consapevole di esercitare una violenza sulla vittima che si sentirà impotente sia nel difendersi che nel denunciare i fatti.
L’assunzione di questo ruolo vessatorio è l’esito di fallimentari compiti evolutivi fase-specifici che ciascun bambino deve affrontare nel corso della crescita. Gli atteggiamenti attuati dal bullo sono dunque inconsapevoli soluzioni devianti che ha adottato per sopperire al mancato superamento di quelle tappe evolutive che permettono uno sviluppo psicoemotivo sano.

Infatti, durante l’età scolare (6-11 anni), i bambini si cimentano nei primi tentativi di emancipazione dagli adulti attraverso identificazioni reciproche, confronti e attività condivise con il gruppo dei pari che permetteranno di arrivare alla strutturazione di una propria identità. In questo modo ciascun bambino, all’interno del gruppo, può sperimentarsi in ruoli diversi oltre a quello di figlio, acquisendo una propria caratterizzazione (sviluppo di interessi personali, hobby, preferenze, eccetera) che lo porterà ad assumere uno status specifico nel gruppo. Ovvero, al di fuori del contesto famigliare, i bambini non sono accettati né riconosciuti aprioristicamente ma devono conquistarsi un proprio posto e le simpatie dei compagni, sulla base delle caratteristiche che stanno maturando e che dovranno imparare a modulare.

L’aver potuto instaurare relazioni positive con i pari durante questa età, permette l’ingresso nelle fasi dello sviluppo successive: l’adolescente acquisisce maggior sicurezza e può progressivamente investire sempre più in nuovi oggetti esterni alla famiglia. Le relazioni sociali acquistano maggior centralità ed il gruppo diventa il punto di riferimento entro il quale l’adolescente si riconosce.

La strutturazione del proprio Io è inevitabilmente vicariata dal gruppo dei pari, “conosco chi sono perché mi riconoscono negli altri e sono attraverso gli altri”. Il sostegno fornito dai coetanei che agiscono come specchio con cui è possibile identificarsi e confrontarsi, permette al ragazzo di mentalizzare le trasformazioni cognitive, emotive, fisiche e sessuali che stanno avvenendo in lui. Questo riconoscersi nel gruppo consente l’elaborazione di un nuovo ideale dell’Io dopo la perdita dell’idealizzazione delle figure genitoriali, a sostegno di un processo di separazione, trasformazione e individuazione.

Dall’infanzia all’adolescenza, ciascuna fase dello sviluppo porta con sé uno stato fisiologico di insicurezza e fragilità che porta a oscillare tra bisogno di ritiro nel sé e bisogno di appartenenza al gruppo. Quando il supporto familiare non è sufficientemente buono e le sfide da affrontare fuori casa intimoriscono o risultano troppo difficili, possono derivarne sentimenti di vergogna, inferiorità e ineluttabilità. Tali vissuti vengono proiettati dal bullo sull’altro, ovvero inconsapevolmente messi addosso ad un altro, cosicché la propria fragilità viene disconosciuta e ribaltata sull’altro che diventerà la vittima, ovvero il bersaglio dell’insoddisfazione derivante dalle proprie difficoltà evolutive incontrate.

Questo bisogno di mantenere un’onnipotenza che è solo apparente, fa sì che la scelta della vittima debba ricadere su una persona più fragile, emotivamente e psicologicamente non ancora strutturata e quindi facilmente sottomissibile. Spesso la vittima è meno capace in quelle attività ritenute importanti per i coetanei (sport, relazioni di coppia, eccetera) o possiede proprio quei tratti che il bullo inconsciamente teme; quindi la soluzione più immediata è quella di allontanarla ed estrometterla dal gruppo, ribaltando il timore inconscio in apparente forza.

Conseguenze del bullismo psicologico

Risulta evidente l’importanza che il gruppo dei pari riveste nella crescita dell’individuo e ci permette di capire la severità delle conseguenze che il bullismo psicologico provoca quando la vittima viene estromessa e isolata dalla vita sociale.

Il rischio è che, considerando la persistenza del fenomeno, una volta assunto il ruolo di vittima, ci si identifichi in esso e non si riesca più a sottrarvisi per la paura di perdere la propria identità che ormai si è strutturata secondo la dicotomia bullo/vittima. La vittima si sente prevaricata da un potere schiacciante al quale non riesce e non sa come rispondere, il senso di impotenza la porta a sottomettersi alla volontà del bullo rinunciando alla propria persona. In questo modo si identifica con ciò che il bullo si aspetta, vivendosi e percependosi così come il bullo la definisce, evitando di partecipare alle attività sociali, vergognandosi, fino al punto di non desiderarle né ricercarle più.

La difficoltà ad accedere al gruppo o l’estromissione da esso causano risposte di tipo controidentificatorio. Ovvero il ragazzo farà delle scelte inconsce volte all’essere opposto e contrario a quello che gli altri sono (e che invece vorrebbe essere) e non dovute al suo reale sentire: per esempio “sono io che non voglio stare con loro ... non mi interessano, parlano solo di stupidaggini … non mi importa sto bene da solo … io non vi voglio.” invece di ammettere che vorrebbe stare con loro ma non può.

La vittima in questo modo sovverte i ruoli, illusivamente si racconta di aver stabilito lei questa distanza convincendosi di non soffrirne né dispiacersene. Dal punto di vista clinico il rischio è quello di creare una struttura identitaria fondata sul falso sé, retta da un’impalcatura di menzogne difensive che permettono di non sentire il dolore, dovuto alla sopraffazione psicologica, ma non consentono l’espressione del vero sé.

Ho subito bullismo e me ne vergogno

Spesso la tendenza da parte degli adulti e dei ragazzi stessi è quella di minimizzare, liquidando con frasi del tipo “dai non ci pensare … sono ragazzate … non te la prendere, passerà … trova nuovi amici” volte a minimizzare ma che aumentano la frustrazione.

La vittima infatti si vergogna di soffrire così tanto per comportamenti che agli occhi dell’altro sono di poco conto. Lo starci male inoltre confermerebbe le fragilità che tanto teme e che, proprio tramite la prevaricazione psicologica, gli vengono rimarcate. La soluzione tendenzialmente adottata è quella di smettere di parlarne. A lungo termine il rischio è che questa negazione o minimizzazione porti la vittima a scindere i propri vissuti: questi solo apparentemente scompaiono ma si manifestano sotto forma di una sintomatologia varia. Emergono incubi, disturbi del sonno, mal di testa, mal di pancia, ansia, calo del rendimento scolastico, anedonia, apatia, eccetera. Talvolta l’incontro con l’altro alimenta sentimenti di estraneità e angosce depressive al punto da rendere inutilizzabile l’uso del gruppo come veicolo identitario.

Come può aiutare la psicoterapia?

La teoria psicoanalitica si è sempre interessata ai cambiamenti che avvengono nel singolo individuo a seguito delle modalità e qualità di partecipazione alle relazioni. È per questo che la psicoterapia ad indirizzo psicoanalitico, che con i bambini e adolescenti trova sue specifiche indicazioni e finalità, rappresenta un aiuto importante con cui sentirsi accolti, riconosciuti e sostenuti. L’ascolto terapeutico offre uno spazio e un tempo relazionale di contenimento e comprensione che permette, tanto alla vittima quanto al bullo, di integrare e superare quelle fragilità narcisistiche che altrimenti porterebbero alla frammentazione del Sé.

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Dr.ssa Berenice Merlini - Centro Clinico SPP Milano età adulta