"Tutti dovrebbero andare dallo psicologo"... qualche riflessione

“Tutti dovrebbero andare dallo psicologo”.
Reazioni comuni all’inizio di una psicoterapia.

L'ansia nei primi colloqui

Spesso nel corso dei primi colloqui con persone che richiedono una consulenza psicologica capita di sentire questa frase: “Secondo me, tutti dovrebbero andare dallo psicologo”. Talvolta viene pronunciata prima di raccontare i motivi che hanno condotto nello studio dello psicologo, quasi a voler tranquillizzare chi ha chiesto il colloquio. Al di là della validità di questa affermazione, sono colpito dalla sua frequenza e dalla profondità di emozioni e significati che nasconde.

Appare evidente che se tutti dovessero andare in psicoterapia allora nessuno dovrebbe sentirsi impaurito e timoroso di riscontrare nel parere dello psicologo una presunta anormalità o patologia: “se tutti dovessero andare dallo psicologo allora non sarei io il solo ad avere dei problemi”.

Andare dallo psicologo viene spesso vissuto come l’attesa di un verdetto: il professionista diventa un possibile rappresentante esterno delle nostre peggiori paure interne. Cosa significa questa mia sofferenza? Questa mia ansia, questa mia tristezza sarà forse dovuta ad un mio difetto irreparabile? Questi miei attacchi di panico vorranno forse dire che ho sbagliato alcune scelte fondamentali della mia vita?

Queste domande accompagnano molte consultazioni nei momenti iniziali e possono essere fonte di una grande ansia. Da qui l’arrivo della frase in questione che sembra avere il seguente corollario: “se tutti dovessero andare dallo psicologo allora queste domande farebbero parte dell’esperienza comune e non dovrei sentirmi solo nel mio malessere”.

La richiesta di aiuto: tra fiducia e timori

Un secondo aspetto che colpisce è la fermezza e la rigidità con cui viene pronunciata questa sentenza: è il “dovrebbero” che dona alla frase il suo carattere di obbligo. Perché una persona dovrebbe andare dallo psicologo sotto costrizione? Nell’esperienza di ogni psicologo questo è sicuramente un fattore contrario alla possibilità di avviare una psicoterapia.

Ancora una volta la risposta non è da cercarsi nel ragionamento logico-razionale, ma nelle complesse dinamiche emotive che si attivano all’inizio di una consultazione. “Gli altri “dovrebbero” andare dallo psicologo come io mi sono imposto di non ascoltare le mie paure e di richiedere il parere di un perfetto sconosciuto”. “Dovrebbero” perché anche io ho fatto questo passo solo grazie ad un obbligo e ad un atto di fiducia nei confronti del professionista che ho scelto.” 

Confidare le proprie sensazioni più intime e dover attendere in risposta un parere su noi stessi è un passo che richiede coraggio: solo la fiducia nel nostro buon senso e nelle nostre credenze logico-razionali può sostenere un tale passo così contrario a tutto quello che sembra suggerirci la pancia. Da qui la fermezza e la rigidità di questa affermazione. Il “dovrebbero” sembra quindi dire: “anche gli altri dovrebbero così come io mi sono obbligato, nonostante una parte di me abbia lottato strenuamente per farmi fallire, a venire a chiedere un aiuto”.

“Farcela da soli”

Un’altra frase che spesso compare all’inizio della consultazione e che sembra fare da corollario alla prima è la seguente: “Non mi sono deciso a chiedere aiuto in passato perché volevo farcela da solo”.

Chiedere aiuto ad un professionista viene spesso vissuto come una sconfitta personale, un fallimento delle proprie capacità di gestione e controllo del malessere. Si tratta anche qui della manifestazione di un’ansia relativa al dover nominare e affrontare il significato del proprio disagio.

L’inizio di una psicoterapia è tuttavia un processo nel quale la persona che chiede aiuto viene inevitabilmente coinvolta e fa uno sforzo per attivare, con l’aiuto di un professionista, le proprie risorse per affrontare i problemi che sono sorti. È quindi un processo attivo, molto lontano dalla passività che questa frase sembra gettare come un’ombra sulla persona che chiede aiuto. La psicoterapia non è un processo che agisce per magici influssi, non fornisce soluzioni miracolose e facili con le quali poter risolvere istantaneamente ogni difficoltà personale.

Il dolore da evitare

Spesso dietro a questa frase vi è la richiesta di affrontare solo ed esclusivamente la sintomatologial’ansia, gli attacchi di panico, una fobia, un momento di tristezza, una difficoltà relazionale.

La richiesta, impossibile nella sua immediatezza e specificità, sembra essere quella di far scomparire solo ed esclusivamente il dolore senza fermarsi ad indagare il significato, la storia e l’esperienza di questo stesso malessere. Come si cerca di far sparire un mal di testa indesiderato senza chiedersi a cosa possa essere dovuto, così ci si illude di poter far scompare il dolore psichico. Nel corso dei colloqui risulta spesso evidente come il “farcela da solo” sia un atteggiamento di evitamento del problema nella speranza che possa magicamente scomparire.

Solo dopo aver preso coscienza di tale evitamento e del suo insuccesso è possibile formulare una richiesta di aiuto. Questo passo è un momento delicato e fondamentale proprio perché sarà molto difficile abbandonare la speranza che un bel giorno il dolore possa sparire senza che lo si debba affrontare: “Lei è sicuro che io non possa svegliarmi un giorno senza più sentire tutta questa ansia?” mi sentii chiedere nel corso di uno dei colloqui iniziali.

Di certo non è possibile prevedere il futuro: è possibile che alcuni sintomi o malesseri possano essere passeggeri. Tuttavia, è più probabile che, invece che scomparire, possano trasformarsi e, nel caso in cui si decida di tornare ad una strategia di evitamento, si è persa una buona occasione per gettare uno sguardo su cosa succede dentro di noi e sul significato di questo dolore.

La speranza e il desiderio

A questo punto tuttavia credo sia opportuno riflettere su un ulteriore e fondamentale aspetto che queste frasi comuni sembrino far percepire sullo sfondo. Questi timori che si vivono all’inizio di un percorso di psicoterapia nascondono anche, fortunatamente, un rovescio della medaglia: un elemento di speranza e di desiderio. Se una persona decide di provare a condividere le parti più intime della propria esperienza con uno psicologo significa che a motivare tale scelta non sono solo paure e timori ma anche l’augurio che in questo incontro si possa trovare sollievo e piacere.

All’inizio di un percorso è fondamentale riuscire a scoprire questo desiderio e ad alimentarlo sostenendo la parte della persona che davanti alle proprie difficoltà e problemi ha deciso di non voler più nascondere o evitare il dolore ma di volerlo conoscere ed esplorare. Se è presente tale movimento interno la psicoterapia è possibile e molto probabilmente sarà un percorso utile, faticoso, talvolta doloroso ma per altri aspetti piacevole e rivelatorio.

Ho fatto riferimento a due termini specifici: sollievo e piacere. Per sollievo non intendo la possibilità di sfuggire alle difficoltà ma l’opportunità di sentire che queste difficoltà possono essere affrontate in modo produttivo. Sollievo è un termine che indica la liberazione da un peso: quali sono i pesi che spesso impediscono ad una persona di chiedere aiuto?

Il sollievo può venire dal riconoscere che le emozioni e i vissuti spiacevoli che si stanno attraversando fanno parte dell’esperienza umana. Il rischio nel non riconoscere tale universalità del dolore psichico può sfociare in una medicalizzazione del malessere mentale tale da creare una forte ansia: la persona che vive un disagio avrà allora il terrore di essere preda di una patologia assimilabile a quello che potrebbe essere un disturbo biologico.

Senza correre il rischio di essere ingenuamente ottimisti, bisogna tuttavia riconoscere che non giova al fine di un lavoro di psicoterapia il ragionare in termini di anormalità, patologia, danno, disturbo. La vita mentale degli uomini è segnata anche dal dolore e dal malessere. Allo stesso modo è estraneo al lavoro di psicoterapia il giudizio morale dell’esperienza individuale: la persona che si rivolge ad uno psicologo ha spesso già alimentato autonomamente un forte senso di colpa, spesso avvertito come un peso, per i propri vissuti e per le conseguenze del proprio malessere.

Il sollievo allora deriva dalla possibilità di osservare tutti questi vissuti senza l’urgenza di dovervi applicare una etichetta di patologia medica o di condanna morale. Questo chiarimento appare fondamentale per poter iniziare a chiarire i contorni del problema senza essere sommersi dall’ansia. Il piacere è successivo a questa possibilità: se quello che sto vivendo non è anormale o patologico allora che significato ha? La possibilità di non essere “messi in croce” per il proprio dolore apre alla possibilità di un’esplorazione di sé meno condizionata da giudizi e paure.

Nel corso della terapia questa è una conquista sempre fragile e continuamente da riconquistare, mai pienamente raggiunta. Tuttavia, di volta in volta, le paure e i giudizi riguardanti la propria esperienza e le proprie emozioni saranno altrettante fonti di informazioni e il vero materiale grazie al quale sarà possibile avanzare nella conoscenza di sé.

L’inizio della psicoterapia: un’esplorazione possibile

La possibilità di esplorare pensieri ed emozioni prima inaccettabili è fonte di sollievo e permette un investimento sulle proprie risorse. I motivi per cui alcune parti della propria vita mentale risultano inaccettabili e devono essere negate con forza possono essere diversi.

Un aspetto comune è quello di giudicare alcune parti della propria vita emotiva come contraddittorie e quindi non integrabili nell’esperienza di sé: questo avviene, ad esempio, nell’attivarsi di sentimenti ed emozioni aggressive o di odio nei confronti di una persona amata (un coniuge, un figlio, un genitore). Sperimentare emozioni negative nei confronti di persone oggetto del nostro amore può essere un’esperienza difficile da vivere e che spesso porta alla negazione di tali sentimenti.

I motivi di tale negazione possono essere i più disparati ma solitamente l’ansia che generano è dovuta all’aspettativa che tali emozioni negative possano danneggiare irreparabilmente la relazione. La possibilità, all’interno di un percorso di terapia, di riappropriarsi di tali vissuti, impedendo quindi che possano trovare la loro manifestazione, in sintomi (ansiosi, depressivi, ecc.) o in comportamenti che provocano sofferenza, permette alla persona di espandere la conoscenza del proprio mondo interno ed in tal modo di poter far fronte alle difficoltà reali della relazione senza sentirsi in trappola.

L’illusione che da ogni “buona” relazione debbano essere banditi sentimenti di odio o di aggressività è spesso causa di dolore psichico: a seconda dei casi può portare a sperimentare sensi di colpa, ansia, frustrazione.

Queste dinamiche affondano spesso le radici nelle dinamiche infantili e nell’esperienza antica fatta con le proprie figure di riferimento. La possibilità di guardarsi e riconoscersi nella propria storia permette di uscire dallo scacco di alcuni automatismi che potrebbero tenerci bloccati in diverse aree della vita personale: nelle relazioni, nella sessualità, nella crescita personale.

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Dr. Niccolò Lavelli - Centro Clinico SPP Milano età adulta