Tono di voce e psicologia: gli aspetti emotivi della voce

"Dicevi cercatemi, cercatemi sotto le parole" (Milo De Angelis, 2015)

Gli studi sulla comunicazione chiariscono che essa non è uno scambio di soli elementi verbali, anzi la componente non verbale è quella che apporta il maggior numero di informazioni e spesso lo fa in modo "sincero", al di là di possibili formalità o artifici lingusitici.

Vari sono i sistemi della comunicazione non verbale che arricchiscono il messaggio: c'è il sistema cinesico, che include i movimenti corporei, le espressioni facciali, la gestualità, il contatto visivo e la postura che si assume durante lo scambio; il sistema prossemico, costituito dal modo di occupare lo spazio e dalla distanza tenuta durante il dialogo; e il sistema paralinguistico, che annovera i silenzi, il ritmo e la frequenza dell'eloquio, e poi ancora il tono di voce. Questi sistemi possono agire in modo coerente con il messaggio verbale, confermandolo, oppure in modo incongruo, rivelando un intento comunicativo quantomeno ambivalente; inoltre, i sistemi non verbali concorrono a trasmettere gli aspetti emotivi dello scambio dialogico.

Un episodio estivo sugli aspetti emotivi della voce

Mentre scrivo questo articolo ricordo un vecchio episodio che mi aveva fatto riflettere sugli aspetti emotivi della voce.

È piena estate. Milano è rovente. Durante il mio turno per un servizio in psichiatria, scopro un paziente molto sofferente, serrato in casa. Dapprincipio rifiuta il ricovero, poi apre alla possibilità se ad accompagnarlo sia io. Aspettiamo un primo tram, dove il plexiglass della pensilina fa da lente per i raggi solari. Arriviamo in CPS dove predispongono il ricovero. Prendiamo un secondo tram, che percorre binari lucenti, fino all'ospedale. Nonostante il preavviso, dobbiamo passare dal Pronto Soccorso. Ci mettiamo in fila. L'afa smorza il respiro e le mascherine stroncano quel che ne rimane. La persona accanto a me letteralmente gronda sudore. Voci di infermiere mandano urla, quali inviti ad avanzare; voci di pazienti lamentano dolore; voci di parenti chiedono informazioni in un brulichio indistinto; voci di barellieri reclamano spazio. Chiuso dentro a una scatola di plexiglass - ancora plexiglass - un uomo risponde a ciò che può, indica, si asciuga la fronte. È una sorta di portinaio del triage, il primo filtro per accedere al P.S. In un momento di pace, commenta da solo, ad alta voce: "Era meglio quando lavoravo nelle camere mortuarie".

Un po' lo ha detto anche a favore del mio orecchio, così pur'io mi asciugo la fronte e replico, fingendo un'ironica e macabra complicità: "Perché faceva più fresco?". "No", mi corregge. "Perché tutti stavano zitti".

Quella frase mi era risuonata nella mente a lungo. Mi aveva colpito, mi aveva freddato, nonostante il calore della giornata. In quel caos, a me giungevano poche parole intelliggibili, figuriamoci cosa arrivasse dentro a quella piccola stanza trasparente piazzata in mezzo all'androne. Nell'aria c'erano soprattutto lamenti, grida, versi, pianti sciolti nell'afa. Quella frase mi ha fatto riflettere sulla voce umana la quale, ancor prima delle parole, risuona e tocca corde profonde, primordiali, più spaventose della morte: risuona il dolore dell'esistenza. E lo fa prima di informare il linguaggio, prima di diventare mezzo per le parole, quando la voce è ancora messaggio della verità soggettiva più profonda.

Numerosi studi rilevano che il tono di voce e i suoni vocali non verbali, come e più del parlato verbale, trasmettono valenze emozionali, eccitazioni, intensità.

Il motherese

L'uso della voce umana come vettore emotivo è frequente e fondamentale: per esempio, lo si osserva nel "motherese", o "baby talk", ossia quel linguaggio dalla prosodia marcata che le mamme indirizzano ai figli piccoli, rivestendo di interpretazione le loro lallazioni, dando contenimento emotivo ai loro strilli, nutrendo di latte buono il loro udito.

Il motherese è una varietà linguistica caratterizzata da semplicità sintattica e da importanti coloriture affettive: il caregiver parla più lentamente, scandendo in modo chiaro le parole; queste sono poche e riferite alla situazione presente, all'attività in atto in quel momento; le frasi risultano brevi, con una struttura facile e supportata da coerenti componenti non verbali. Si registra, inoltre, una tendenza naturale della madre ad assumere un tono di voce più alto del solito e con un andamento musicale. Alcuni studi recenti hanno rilevato che la voce materna può raggiungere le aree del cervello deputate allo sviluppo e all'elaborazione delle emozioni.

La funzione del motherese non è insegnare al bambino a parlare; il motherese non si impara a scuola, né la sostituisce. La sua funzione principale è fornire al bambino contenimento e chiavi di lettura emotiva alle sue tensioni: a fronte di un disagio senza nome, il neonato scoppia a piangere. Sarà il tono di voce della mamma, sintonizzata sui bisogni del piccolo, a restituirgli che quel disagio è la sensazione del freddo, o della fame, o di una postura scomoda; a comunicargli che qualcuno ha intercettato il suo disagio, lo ha capito, sa dargli un nome e può intervenire. Il tono di voce della mamma può essere, quindi, una prima coperta che riscalda, una goccia di latte che placa i morsi di un appetito vorace, un abbraccio sonoro che culla.

La voce, il corpo e la letteratura

La voce, ancora suono e non ancora linguaggio, è corpo. Origina da esso, in modo "meccanico", dagli organi della fonazione; viene plasmata da esso con le reazioni fisiologiche a seguito dell'attivazione del sistema limbico (amigdala, ipotalamo, ippocampo, corteccia limbica), del cambio di ritmo cardiaco e della contrazione muscolare; e ha un impatto sul corpo: la voce-non-ancora-parola è percezione.

Si trova traccia ed evidenza degli aspetti emotivi e sensoriali della voce in molte formule sinestesiche: una voce alta o bassa; una voce opaca o cristallina; una voce che sostiene, una voce che ha una grana; Pascoli scrisse di "voci di tenebra azzurra"; una voce fredda o calda, dura o molle; una voce tagliente o stucchevole, dolce o amara; una voce che accarezza, che sfiora, oppure che graffia. Piero Chiara, in un racconto, scrive: "La moglie, di nome Lea, era una donna [...] dotata di una strana voce, un po' roca, che sembrava toccare più che l'udito la pelle di chi l'ascoltava". E ancora una voce che è rapimento, è fascinazione mortale come il canto delle sirene che obbliga Ulisse a farsi legare all'albero della nave.

Aspetti emotivi della voce in psicologia

Un fenomeno così pervasivo è materiale prezioso in psicologia: da quella dell'età evolutiva, con il motherese sopra trattato; alla psicologia sociale, con la ricerca delle costanti universali nell'espressione  delle emozioni; e ancora nella psicoanalisi, che è stata chiamata anche "talking cure", cura della parola, o forse è meglio cura del parlare, perché il vocabolario è importante, ma non esaurisce lo scambio tra paziente e terapeuta. Tant'è che si usa la metafora del "terzo orecchio", quello che ascolta la persona oltre le parole e coglie gli aspetti emotivi della voce.

Per colmare questo scarto tra dire e comunicare è necessario intercettare tutto il mondo che il paziente porta in seduta e che sfugge al controllo della parola: la dimensione del sogno, il lapsus, il corpo, il tono di voce, il suo ritmo, i suoi silenzi. Al contempo, per l'analista è importante accertarsi se la persona che ha davanti abbia sviluppato la capacità di usare e di cogliere i segnali emotivi presenti nella voce umana: deficit di questa capacità sono associati a quadri psicopatologici.

All'ascolto attento di un clinico, un eloquio che, a prescindere dalle parole pronunciate, si presenta rapido, acuto, in rincorsa con se stesso, suggerisce uno stato maniacale; una parlata cantilenante, confusa e confondente rimanda alla schizofrenia ed è spesso citata con la formula gergale di "insalata di parole", la quale ha una sua prosodia, un suo "condimento" caotico, e non solo un caos lessicale; oppure, ancora nei quadri schizofrenici, manca la capacità di riconoscere gli elementi, come il tono di voce, capaci di supportare e chiarire un intento verbale: come ciò che rende ironica una frase fatta di parole serie se pronunciate in tono neutro.

E ancora, una voce flebile, strascicata o addirittura assente caratterizza soggetti melanconici. A volte il paziente ode voci minacciose e svalutanti, se è affetto da paranoia. Oppure, se a dominare sono meccanismi difensivi come la dissociazione, la rimozione e l'isolamento, può capitare di ascoltare un dramma narrato con voce calma e distaccata; la dichiarazione di un amore proferita con rabbia; la descrizione di un episodio agghiacciante fatta da una voce allegra; il racconto di un lutto lontano decenni
riportato con voce ancora rotta.

Il tono di voce che il paziente usa per un racconto o un commento può fornire indizi anche su quale oggetto - personaggio del suo teatro psichico - egli ha selezionato per identificarsi in quel momento.

Un ultimo esempio - ma altri sono possibili - di quanto sia prezioso il tono di voce in psicologia: talvolta si fa riferimento alla voce della coscienza per intendere il Super-Io, che può avere un tono bonario, equilibrato oppure molto severo.

L'utilità in clinica di prestare attenzione al suono della voce appare ancora più evidente se si ricorda l'etimologia del termine "personalità": dal latino per-sonare, ovvero risuonare attraverso, indicava l'emettere voci particolari da parte di un attore attraverso la maschera teatrale.

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Dr. Emanuele Visocchi - Centro Clinico SPP Milano età adulta