Aggressività psicologia e violenza: perché una persona è aggressiva?

La conclusione di un legame affettivo fa breccia, inevitabilmente, nel mondo esterno e interno dei soggetti coinvolti fino ad arrivare, a volte, a mettere in crisi quell’equilibrio psichico che, in tale relazione, aveva trovato un contenitore stabile dei propri vissuti emotivi.

Affrontare la perdita, elaborandola attraverso il processo del lutto, può essere particolarmente difficile soprattutto per le persone più fragili che, con la separazione, sentono vacillare, se non addirittura rompersi, la percezione del proprio valore individuale e l’integrazione della loro debole personalità. La chiusura del rapporto, in alcuni casi, può allora generare un intenso vissuto di affronto e/o abbandono che si delineano come intollerabili, poiché legati ad una ferita dell’autostima che è troppo profonda per permettere, a chi ne soffre, di riuscire ad elaborarla da solo.

Questo perché, con essa, riappaiono in superficie profonde angosce, rispetto alla cui irruzione l’individuo si trova nella condizione di non avere, difensivamente, altra “arma da guerra” se non quella di ricorrere a comportamenti istintuali che spesso divengono patologici poiché non più mediati dalla coscienza.

Aggresività e psicologia: perché si manifestano certi atteggiamenti di violenza?

Lo scenario della separazione può arrivare così ad animarsi di azioni aggressive e vendicative, compiute dal partner, tormentato dall’idea di non sentirsi più importante all’interno di un’interazione che ormai riteneva consolidata, tramite il ricorso a minacce, molestie, ingiurie e atti di violenza fisica, rivolti sia all’altro coniuge, sia ai figli.

Si tratta di comportamenti espressivi di quella distruttività attraverso cui il soggetto tenta di provocare, nei familiari, lo stesso tipo di sofferenza da lui vissuta e, al tempo stesso, gratificare, apparentemente, una parte immatura e violenta del sé. Si difende così dalla mortificazione narcisistica, assumendo il ruolo dell’aggressore, che gli permette di trasformarsi da attaccato in colui che attacca, ossia di passare dalla passività dell’esperire all’attività dell’agire e attuare, in tal modo, la sua vendetta.

Non dimenticando l’indiscussa difficoltà, e forse prima di tutto illegittimità, del dover subire quanto agito su di sé da parte di chi si trova nella condizione dell’essere “attaccato”, credo possa essere interessante una riflessione su quale sia la parte di Sé che incita l’”attaccante” nel compimento di simili atti. La parte di questa persona che sente principalmente e in modo angosciante di essersi dispersa a causa del naufragio della relazione coniugale, è probabilmente quella che richiama il suo Sé infantile, che vive l’essere lasciato come un attacco alla propria fragile autostima e al suo narcisismo rimasto fondato sul bisogno di ricevere dall’altro, in continuazione, prestigio e ammirazione.

L’affetto che ne deriva è quello della vergogna per l’offesa subita, sentimento da cui il soggetto si difende con la rabbia e l’aggressività che da essa ne consegue. Gli agiti compiuti diventano così sia manifestazioni onnipotenti di un Sé che, invece, è bisognoso, sia mezzi di restaurazione di una fragile e precaria personalità.

L’aggressività, infatti, è presente prima dello sviluppo completo della personalità, periodo in cui è quasi sinonimo di attività: ricordiamoci che il feto tira i calci quando è nel ventre materno e non possiamo certo pensare che lo faccia per cercare di uscire considerato il contesto idilliaco in cui è racchiuso. Attraverso la relazione con le figure genitoriali, il bambino impara poi a dare un significato a questa forte emozione e a contenerla all’interno di una personalità che si è così consolidata. Tuttavia, l’integrazione della personalità va e viene; anche quando è ben stabilita, sfortunate circostanze ambientali possono farla svanire ed è proprio in tali situazioni che c’è il rischio che l’aggressività finisca per essere agita.

Per comprendere maggiormente simili vissuti, è importante tenere presente che una persona così particolarmente centrata sulla propria immagine, molto probabilmente, da bambino, ha subito un grave colpo alla stima di sé attraverso uno stato di costante umiliazione che ha modellato la sua personalità. In particolare sarà un adulto il cui “bambino interno” continuerà a ricercare nell’altro uno sguardo che gli rimandi quel valore che, da solo, non sente di avere; sarà alla costante ricerca di quello specchio il cui precursore lo psicoanalista D. W. Winnicott colloca nella “faccia della madre”, la cui capacità di rispecchiare nei suoi occhi il volto del bambino, permette in lui il sorgere graduale di una sana autostima.

In conclusione, tanto più è intensa la sofferenza emotiva che la separazione porta con sé, tanto più c’è il rischio che possa esplodere la distruttività animata da un’aggressività che, precedentemente, aveva trovato il suo contenitore, in forma sublimata, nella relazione ormai naufragata.

Tale sentimento, che a volte assume dimensioni debordanti, potrebbe trovare un nuovo contenitore nella relazione psicoterapeutica che, oltre ad accogliere gli aspetti dolorosi vissuti dal soggetto, offre la possibilità di fare transitare, dentro lo spazio mentale dello psicoanalista, i contenuti carichi di rabbia, contribuendo così a rendere pensabile ciò che prima era sentito come intollerabile e per ciò stesso agito.

Si tratta di un viaggio, compiuto insieme, alla scoperta di ciò che di profondo la separazione tocca dentro di sé, al fine di prendersene cura e alleviare la sofferenza che esso produce. Metaforicamente penso all’ultima frase della poesia “L’infinito” di Giacomo Leopardi:


Così tra questa Immensità s'annega il pensier mio: E il naufragar m'è dolce in questo mare.

 

a cura della Dott.ssa Donatella Rattini - Centro Clinico SPP dell'Adulto

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