CURA DELLA BALBUZIE CON LA PAROLA

Il poter comunicare con l’Altro è un bisogno naturale e una capacità innata di fondamentale importanza, che trova una delle sue principali modalità di espressione nel linguaggio, cioè nella facoltà cognitiva che hanno gli esseri umani di saper usare una lingua.

Per comprendere appieno quanto l’interazione con l’altro e con l’ambiente siano delle condizioni cruciali dello sviluppo individuale, citerò due osservazioni sperimentali che colpirono molto la mia attenzione, quando le lessi, per la drammaticità degli effetti che il non poter comunicare produce e che da esse emerge chiaramente. La prima fa riferimento alla descrizione, del frate francescano Salimbene de Adam, di un crudele esperimento condotto dall’imperatore Federico II di Svevia, che per scoprire quale lingua e quale idioma avrebbero avuto i bambini se nel loro percorso di crescita non avessero parlato con nessuno, decise di fare accudire e nutrire regolarmente un gruppo di infanti nel più assoluto silenzio. Tutti i neonati, deprivati di interazioni linguistiche e fisiche, morirono.

La seconda osservazione la trovai nella lettura del testo “Bambini senza famiglia” di Anna Freud (1943) in cui l’autrice raccolse le osservazioni effettuate nel corso di un lavoro educativo svolto all’interno di un centro residenziale per i bambini senza tetto e sfollati, a causa delle diverse condizioni prodotte dalla guerra. Dalle stesse emerse come i bambini cresciuti appunto “senza famiglia”, oltre al dover vivere lo shock di essere separati dai loro cari, mostrarono delle differenze significative nello sviluppo del linguaggio rispetto ai bambini della stessa età che vivevano in famiglia.

I bambini negli istituti residenziali presentarono un ritardo nel linguaggio, attribuibile alla circostanza che i loro compagni di gioco non parlavano ancora mentre in famiglia spesso il bambino è l’unico membro che non parla e che, quindi, si relaziona con persone adulte parlanti, dalle quali può ascoltare un linguaggio e poi riprodurlo per imitazione. Questo impeto a comunicare con le persone adulte del mondo esterno viene a mancare se le stesse non ci sono più.

I DISTURBI DEL LINGUAGGIO: LA BALBUZIE

I disturbi del linguaggio sono delle difficoltà persistenti nell'acquisizione e nell'uso del linguaggio causate da deficit di comprensione o di produzione del lessico, della struttura della frase e del discorso, non da deficit cognitivi, uditivi o sensoriali, da disturbi motori e da altre condizioni mediche o neurologiche. Si tratta di un insieme di quadri clinici molteplici, che possono colpire sia i bambini sia gli adulti.

In questo articolo mi soffermerò sulla balbuzie, un disagio che si manifesta nel momento in cui il pensiero deve essere tradotto in linguaggio e la cui definizione fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità è di “un disordine nel ritmo della parola, nel quale il soggetto sa con precisione ciò che vorrebbe dire, ma nello stesso tempo non è in grado di dirlo a causa di arresti, ripetizioni e/o prolungamenti di un suono che hanno carattere di involontarietà.

La balbuzie è un disturbo comune a quasi tutte le culture e noto fin dall’antichità; ha infatti afflitto importanti personaggi in campo letterario, artistico e scientifico, appartenenti a differenti epoche storiche. Tra di essi ritroviamo: Aristotele, Winston Churchill, Charles Darwin, Demostene, Alessandro Manzoni, Mosè.

Tra i disturbi del linguaggio è uno dei più diffusi, che colpisce di preferenza i maschi rispetto alle femmine e che compare più frequentemente nella prima infanzia, in particolar modo quando il linguaggio del bambino passa dalle semplici parole all’organizzazione delle frasi. Per la persona che ne è affetta, sia in età infantile, sia in età adulta, la manifestazione di qualsiasi forma di balbuzie (clonica, tonica o mista, primaria o secondaria) è un qualcosa di fortemente disturbante, che può arrivare a compromettere la sua vita di relazione e quella delle persone con cui interagisce.

Il balbuziente vive, infatti, i rapporti sociali con una profonda sofferenza, che si accentua quando si trova nelle situazioni di gruppo, in cui prova un maggiore imbarazzo ogni qualvolta deve esporre il proprio pensiero. Tutto ciò non viene da lui vissuto quando si trova da solo a pensare, a sognare, a parlare con se stesso o a parlare una lingua straniera, momenti in cui la balbuzie non gli fa compagnia.

LE CAUSE NEUROLOGICHE E PSICOLOGICHE DELLA BALBUZIE

È impossibile dare una risposta risolutiva alla domanda:Perché si diventa balbuzienti?” in quanto la balbuzie interessa differenti discipline (la logopedia, la neurologia, la psicologia, la rieducazione psicomotoria, ecc.) che la rendono uno dei disturbi, ancora oggi, più dibattuti. Dal punto di vista organico, i diversi studi sulla lateralità e la dominanza di un emisfero sull’altro, sulla predisposizione ereditaria, sul controllo acustico, sul controllo della parola e sul mancinismo (spesso osservato in associazione alla balbuzie) si sono dimostrati lacunosi.

Ciò in modo particolare se posti in relazione alla complessità dei fenomeni che accompagnano tale disturbo e all’innegabile circostanza che nella quiete della sua solitudine, al riparo dallo sguardo e dal giudizio altrui, il balbuziente parla senza alcuna difficoltà. Da qui l’evidenza che la risposta alla domanda “Perché si inizia a balbettare?” non può che richiamare in causa aspetti psicologici e relazionali, cui oggi si attribuisce una funzione di primaria importanza. Questi ultimi, anche se in alcuni casi non sono una ragione sufficiente per la comparsa del sintomo, hanno un ruolo determinante nella sua evoluzione, nel suo aggravarsi e nel comportamento che mette in atto la persona che ne soffre.

Al riguardo, il punto di vista psicoanalitico considera la balbuzie come un sintomo che dà espressione a un conflitto tale per cui il parlare e la parola avrebbero un significato inconscio talmente minaccioso da non poter essere utilizzati. L’origine del disturbo sarebbe collocata nelle fasi precoci dello sviluppo psichico in cui
l’aggressività è ritenuta una componente fondamentale per i processi di separazione e individuazione.

Ed è proprio l’aggressività che nella mente del balbuziente si pone come “abito” che veste le sue parole e che, in quanto tale, gli rende impossibile esprimere ciò che desidera dire. Le parole sarebbero da lui vissute come “cose pericolose”, come “armi”, capaci di colpire e uccidere la persona con la quale sta parlando e che quindi vanno usate con estrema cura e sottoposte a un rigido sistema di controllo.

A questo punto ci si potrebbe chiedere: come mai il balbuziente vive le parole come delle armi pericolose? Una delle possibili risposte chiamerebbe in causa la particolarità delle dinamiche affettive da lui vissute nell’ambiente e nelle relazioni familiari che lo circondano in cui spesso sembra esserci un’intensa richiesta da parte dei genitori che il figlio risponda alle loro aspettative di successo e un’educazione rigida. Inoltre sovente c’è un’eccessiva valutazione della parola che perde il contenuto affettivo che veicola nonché il pensiero che porta con sé, per rimanere ancorata esclusivamente a ciò che di concreto rappresenta; ad esempio viene usata come segno di ricchezza culturale.

Il contesto è dunque vissuto dal balbuziente come fonte di continua tensione perché crea un profondo senso di autosvalutazione, oltre alla paura costante del giudizio dell’altro, e a emozioni quali vergogna, frustrazione e rabbia. La strategia che il balbuziente sviluppa per difendersi da un peso emotivo così ingombrante è quella di inibire la propria personalità, mantenendo il più stretto controllo sulla sua parola, con la speranza di gestire al meglio la situazione sociale.

Resta tuttavia in lui la lotta tra il desiderio di parlare e il non parlare; la stessa lotta che affronta ognuno di noi nel momento in cui si avvicina alla realizzazione di un desiderio poiché “temo ciò che desidero proprio perché lo desidero e se lo raggiungo poi correrei il rischio di perderlo”.

LA CURA DELLA BALBUZIE

Per individuare i rimedi con cui poter affrontare la balbuzie, bisogna prima di tutto cercare di riconoscere l'origine che la scatena, partendo dal presupposto che non esiste un rimedio univoco per non balbettare. Il periodo migliore per cominciare un percorso di cura è la prima infanzia; il protrarsi del disturbo potrebbe infatti portare alla sua permanenza negli anni successivi, accentuandosi e aggravando notevolmente il comportamento, a livello psicologico, della persona che ne soffre.

In genere si ritiene utile un approccio integrato che affianchi a una terapia del linguaggio eseguita da un logopedista e basata sulla fonazione, su esercizi di respirazione e su altre tecniche similari, una psicoterapia che permetta di affrontare gli aspetti emotivi e relazionali sottostanti alla balbuzie. Nel balbuziente è forte la paura del giudizio degli altri, che in fondo è il giudizio negativo che egli esprime verso se stesso nel momento in cui si relaziona con il mondo esterno. Per adattarsi all’ambiente sociale può arrivare ad evitare di dire le parole che generano in lui le difficoltà di pronuncia e usarne altre al loro posto, esercitando una rigorosa forma di controllo.

Se paragonassimo il linguaggio al cibo, é come se il balbuziente si trovasse a dover preparare le ricette cambiandone gli ingredienti o addirittura omettendoli, non per sua volontà, ma per l’impossibilità di aprire le ante degli armadietti che custodiscono quei particolari ingredienti per lui considerati troppo “indigesti” per se stesso e per i suoi commensali. Ferma restando la piacevole e importante creatività del rendere personali le ricette variandole, al balbuziente rimangono sia il rammarico di non assaporare il gusto della ricetta con le componenti da lui pensate come “tossiche”, sia il dubbio che le stesse lo siano davvero.

Con una psicoterapia a indirizzo psicoanalitico, la persona che soffre di balbuzie potrebbe prima capire quali sono il pensiero e l’emozione che avvolgono gli “ingredienti per lui vietati” e, solo dopo, aprire le ante di quegli armadietti e provare ad utilizzare tali componenti per cucinare delle ricette e assaporarne il gusto insieme ad uno chef speciale, come sa essere il terapeuta. Ricette che, per la maggior parte delle volte, non seguiranno scrupolosamente gli ingredienti previsti perché ogni incontro terapeutico è unico, fatto dal saper fare ma anche e soprattutto dal saper essere, dell’analista e del suo paziente nella stanza d’analisi.

A cura della dottoressa Donatella Rattini, Centro Clinico SPP Milano

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